Sulla base degli studi nel campo della razionalità economica
si è sempre pensato che una maggiore trasparenza e un aperto riconoscimento della
presenza di conflitti d’interesse portassero ad una migliore consapevolezza e
capacità di scelta per il consumatore. Non sembrerebbe questa però la teoria
portata avanti da uno dei pilastri della finanza comportamentale, George
Lowenstein, che ha evidenziato come da un lato, il consumatore che riceva
l’offerta da parte del consulente si senta poi obbligato moralmente verso
quest’ultimo ad acquistare il prodotto, dall’altro il consulente, in virtù di
una sorta di credito morale, si senta in diritto di accentuare gli aspetti
positivi del bene oggetto dell’offerta.
Questo stesso meccanismo psicologico potrebbe essere
trasposto nell’ambito della sicurezza digitale, ad esempio per il caso
Facebook: Zuckerberg, facendo tesoro delle lezioni di Kanheman e Thaler nel non
lontano 2007 sugli studi cognitivi e comportamentali dell’individuo, ha di
fatto messo l’utente di fronte alla piena libertà di scegliere quanta privacy ottenere e quali dati
condividere, rendendo manifesti gli strumenti di controllo a sua disposizione e
rafforzandone di conseguenza l’autonomia decisionale. Ciò però, invece di
determinare una maggiore prudenza nella pubblicazione dei propri dati online, ne comporterebbe al contrario un
loro aumento, che non è altro che l’obiettivo del social network.
Alessandro Acquisti e lo stesso Lowenstein hanno infatti
dimostrato che “i setting di controllo
della privacy forniscono agli utenti la corda con cui impiccarsi”, facendo
sì che vengano diffuse quantità maggiore di dati, anche di natura particolare, ampliando
lo spettro dei destinatari e quindi aumentando il rischio connesso alla loro
tutela. Tale dimostrazione si fonda su una sorta di doppio registro della
personalità: l’individuo nelle interviste o nei focus group manifesta la convinzione dell’importanza di proteggere
i suoi dati personali; da solo, seduto di fronte al pc, lascia che gli stessi
vengano acquisiti e utilizzati senza alcun limite.
A conferma di ciò, anche uno studio realizzato dai
ricercatori del CIT (Cognitive Insights
Team) del Collegio torinese Carlo Alberto per conto della fondazione Cotec e Link Campus, che ha messo in luce le diverse priorità sentite
dall’individuo nel contesto sociale ed individuale: nel primo caso le ragioni
di tipo simbolico-identitario – ad esempio il furto delle immagini nel web -, nel secondo quelle di tipo
materiale-contabile – la pirateria nel settore dell’home banking e il furto
di carte di credito. Derivazione psicologica che tra l’altro spiegherebbe il
comportamento dei c.d. Haters, che di
fronte alla tastiera manifestano atteggiamenti carichi di aggressività, che non
gli sono assolutamente propri in contesti di vita reale e di interazione
sociale.
Sembrerebbe pertanto che, differentemente dalla credenza
collettiva, la trasparenza e il consenso informato non possano ergersi ad unico
baluardo della tutela della privacy,
ma che sia necessario adottare anche accorgimenti comportamentali, come ad
esempio suggerisce Acquisti, un capovolgimento dell’onere della prova: non
richiedere ai consumatori la prova che la raccolta dei dati personali sul web sia pericolosa, bensì far dimostrare
agli OTT l’impossibilità di lavorare senza questi, oltre ad individuare chi sia
il soggetto che si faccia carico degli eventuali costi.
[Fonte:
Corriere della Sera]